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Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
NELIDA MILANI, UNA VALIGIA DI CARTONE
Nelida Milani Kruljac è una scrittrice nativa di Pola, in Croazia, da sempre voce della minoranza italiana di quelle terre. Docente all’università di Pola, si è occupata nel suo lavoro di linguista della competenza comunicativa nei bambini bilingui. In Una valigia di cartone racconta l’esodo istriano con due racconti. Nel suo percorso, la voglia di parlare di una minoranza confusa e disorientata, alla ricerca delle sue radici.
Mio padre non era nemmeno un fermo antifascista ma, per naturale disposizione del suo sentire, assai vicino alle loro posizioni, ricche di valori umani e sociali… La decisione del restare fu tutta sua e di sua madre, mia nonna. Era arrivato il camion per trasportare laroba al Molo Carbon, papà puntellava armadi e sbandize del letto con le traversine, c’è questa percezione acuta del martello che batte, nonna aiutava il camionista a caricare le suppellettili e tra un materasso e un comò tutti e tre si scolavano, chi qua chi là, un bicchiere di bianco. I miei avevano l’osteria alle Baracche. Quando tutte le masserizie furono stivate, papà e nonna non erano più sobri. Imbriaghi come i scalini. Una bella sbornia. Provocata dal desiderio inconscio di non essere presenti all’ora, indotta dalla disperazione di abbandonare quella casetta di periferia che quando nonna era arrivata da vedova con quattro figli a carico, non aveva ancora le porte e le finestre. L’aveva comprata da due fratelli muratori e le porte e le finestre se le sarebbe messe da sola. Quanti sacrifici, quanta fame, quanta miseria sofferti per quella casetta in cui aveva aperto l’osteria e la rivendita di sali e tabacchi. E lasciar tutto per andare in un mondo sconosciuto? La bala fu determinante, rese più facile lo scaricamento del mobilio e il congedo del camionista e del camion vuoto. Fu questo il restare dei miei. Le zie, gli zii, le cugine partirono, papà e nonna restarono. Mio fratello ed io eravamo fioi, bambini. Fu questo il nostro restare, il mio restare.
ENZO BETTIZA, ROMANZI SULL’ESILIO
![Umberto Saba](https://cdn.studenti.stbm.it/images/2016/09/21/umberto-saba_300x200.jpeg)
Giornalista, scrittore e politico nato nell’isola di Brazza (oggi Brac), non distante da Spalato, Enzo Bettiza porta in sé per tutta la vita radici italiane, croate e austriache. Dopo il 1947 sceglie di lasciare la Jugoslavia per partire alla volta dell’Italia, diventando – sostiene a più riprese – un europeista convinto. Scrive diversi saggi e romanzi raccontando l’esilio della sua famiglia. Ed eccolo una sua recente intervista a Repubblica:
Per un esule, quale sono stato, la parola era il solo modo per difendere la mia identità. Sono nato a Spalato. Ho avuto un’infanzia privilegiata. La famiglia era ricca. Un nonno industriale del cemento. Poi la guerra. I rivolgimenti. La rapida fine di un mondo. Il mio mondo. Conoscevo il tedesco, il croato, l’italiano. In casa si parlava veneto. La Dalmazia aveva avuto una lunga storia con Venezia. La marina della Serenissima era composta di istriani e dalmati. Mi affascinavano le mescolanze di lingue, di storie e di uomini. Poi la felicità venne meno. Mi ammalai. Scoprendo, improvvisamente, il senso della precarietà. (…) La guerra in un miscuglio di orrori aveva travolto villaggi e città. Portammo le nostre cose, quel poco che restava della florida attività imprenditoriale, fuori dall’influenza comunista. E di Tito. Furono mio padre e mio fratello a prendere la decisione di trasferirsi in Italia. Mia madre e mia sorella si adeguarono. A me, sinceramente, non interessava impegnarmi nel loro lavoro. Vidi nella mia famiglia, che era stata per lungo tempo importante, i rovesci della fortuna e i tratti del fallimento.
GUIDO MIGLIA, DENTRO L’ISTRIA
Nato nel 1919, Guido Miglia era originario di Pola e aveva lasciato la sua terra a seguito del trattato del ’47. Giornalista e insegnante a Trieste, ha raccontato l’esodo in Dentro l’Istria. Diario 1945-1947.
Ho atteso questo dieci febbraio nella trepidazione della notte insonne, fuori il vento ha fischiato sinistro, un lampione tremava e gettava la sua povera luce fredda nella mia finestra vuota; poi con la grande valigia ho camminato sulle strade della mia città quando il cielo era ancora buio, gli alberi dei Giardini erano scossi dal vento. Lungo il Corso stretto mi seguiva il vento, che veniva gelido dal mare, molti negozi erano senza vetrine, strappati anche i vetri e le saracinesche, come volti senza occhi, i portoni dei palazzi erano aperti, le imposte lasciate libere si aprivano e si chiudevano nelle case abbandonate, come tombe scoperchiate.
Un vecchio, prima di salire sulla nave, si inchinò fino a terra e la baciò, poi si mise sulla poppa e io vidi la sua schiena che sussultava in un tremito convulso. Guardai ancora una volta la splendida banchina della mia riva, l’Arena e il palazzo dell’Ammiragliato, il ponte di Scoglio Olivi, le piccole case sulla mia collina, e scesi sotto coperta a fissare intontito la mia valigia.
MARISA MADIERI, VERDE ACQUA
Originaria di Fiume, lasciò l’Istria nel 1949, vivendo come molti altri profughi nel Silos di Trieste, un magazzino in cui moltissime famiglie trovarono riparo in quegli anni. Nel suo Verde Acqua ricorda l’esilio:
Tra il 1947 e il 1948 a tutti gli italiani rimasti ancora a Fiume fu richiesta l’opzione: bisognava decidere se assumere la cittadinanza jugoslava o abbandonare il paese. La mia famiglia optò per l’Italia e conobbe un anno di emarginazione e persecuzioni.
Fummo sfrattati dal nostro appartamento e costretti a vivere in una stanza con le nostre cose accatastate. I mobili furono venduti quasi tutti in previsione dell’esodo. Il papà perse il posto e, poco prima della partenza, fu imprigionato per aver nascosto due valigie di un perseguitato politico che aveva tentato di espatriare clandestinamente e, catturato, aveva fatto il suo nome. Con la sua consueta ingenuità, il papà si fece cogliere con le mani nel sacco.
Quei mesi di vita sospesa, non più casa e non ancora del tutto altrove, furono da me vissuti con un profondo senso di irrealtà, non con particolare sofferenza. […] E’ così che ricordo la mia Fiume – le sue rive ampie, il santuario di Tersatto in collina, il teatro Verdi, il centro dagli edifici cupi, Cantrida – una città di familiarità e distacco. Tuttavia quei timidi e brevi approcci, pervasi di intensità e lontananza, hanno lasciato in me un segno indelebile. Io sono ancora quel vento delle rive, quei chiaroscuri delle vie, quegli odori un po’ putridi del mare e quei grigi edifici. Per molti anni dopo l’esodo non ho più rivisto la mia città e l’ho quasi dimenticata, ma quando ho avuto l’occasione di passare per Fiume […] ho provato la chiara sensazione di ritornare nella mia verità. […]
Nell’estate del 1949, ottenuto il visto per l’espatrio e dopo una breve visita a papà in carcere, partimmo da Fiume – mia madre, mia sorella, io e la nonna Madieri, già molto anziana e malata di cancro.
FULVIO TOMIZZA, IL BOSCO DI ACACIE
Originario di una piccola cittadina istriana, Tomizza si trasferisce a Trieste nel 1954. Ne Il bosco di acacie un passo racconta di un problema molto caro agli esuli istriani, ovvero la difficoltà di farsi riconoscere come tali per paura di essere discriminati:
Tu non parli. Neanche con me vuoi parlare” disse Giordano.[…]
Io ti capisco, che credi? Ti senti offeso, come lasciato a te stesso.
Rispose:”Non mi sento niente”.
LINA GALLI, ESULI
Poetessa ermetica originaria di Parenzo, Lina Galli si è trasferita a Trieste nel 1931. Ha raccontato il dramma dell’esodo giuliano-dalmata in una serie di poesie, tra le quali una delle più caratteristiche è proprio quella che prende il nome di Esuli:
A bordo della nave, staccati da Pola
pensavano con ansia alle città
che li aspettavano.
Strappati alla loro terra
che sfilava con le coste bellissime
verso un domani ignoto.
E a Venezia una turba li accoglie
con grida ostili e rifiuta loro il cibo;
e a Bologna il treno non può fermarsi,
causa la folla nemica.
I bambini guardano intorno smarriti.
I genitori non hanno più niente da dare a loro.
II domani è un incubo.
Non li sentono fratelli gli Italiani,
una gente da rigettare, esuli.
Essi guardano tutto in silenzio
con gli occhi dilatati
dove le lagrime stanno ferme.
Il dolore di avere tutto perduto
si accresce di questo nuovo dolore.